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Corsa a depositare oro fisico in USA prima che arrivino i dazi

Un interessante osservazione condotta dal Corriere della sera sull’azienda che dalla Svizzera lavora l’oro per farlo diventare lingotti per la conservazione nei cavea. Da dicembre non riesce a smaltire gli ordinativi: un segnale evidente che il mercato è in pieno boom.

L’azienda si chiama Argor-Heraeus, è sulla strada per Lugano, possiede una fonderia e fa un mestiere speciale: fonde e forgia lingotti d’oro puro al 99,99%. Dice il suo co-amministratore delegato Robin Kolvenbach: «Argor-Heraeus ha avuto una domanda significativa di fusione e trasformazione di oro da lingotti da 400 once in lingotti da un chilo. È iniziata nei primi giorni di dicembre». Così sono arrivati a Mendrisio timori e calcoli innescati ovunque nel mondo dal ritorno di Trump, dalle sue minacce sui dazi e dai dubbi che circondano il dollaro quale moneta di riserva senza rivali anche in un futuro più o meno distante.

C’è la corsa a depositare oro fisico sul mercato americano

L’ondata di richieste alla Argor-Heraeus di Mendrisio deriva da questa discrepanza: molte istituzioni finanziarie avevano fretta di spostare oro dall’Europa agli Stati Uniti e venderlo al Comex, prima che Trump lasciasse la sua impronta. Ora il numero di nuove richieste è calato, ma Kolvenbach riconosce: «Stiamo ancora producendo per gli ordinativi partiti a inizio dicembre. I tempi di consegna delle barre da un chilo si sono allungati di un bel po’».

ECONOMIA

È tutto un frutto dei dazi, ma soprattutto dei timori che essi hanno scatenato. Fra gli investitori si è diffuso il sospetto che la Casa Bianca avrebbe applicato tariffe anche all’esportazione di oro fisico dal resto del mondo agli Stati Uniti. Sarebbe la mossa più vicina a una tassa sulla libera circolazione dei capitali che l’Occidente abbia visto da decenni. Il sospetto si è diffuso tanto che il prezzo dell’oro fisico al Comex di New York è salito sopra a quello del London Metal Exchange, proprio per integrare il rischio di un costo maggiore in America a causa dei dazi. Di colpo dunque grandi gestori privati d’oro hanno comprato e prelevato riserve, per lo più custodite alla Bank of England, per venderle a New York e approfittare della differenza. Ma per accedere al Comex avevano bisogno di barrette, non di lingotti, quindi hanno travolto la Argor-Heraeus di Mendrisio di richieste.È stato un sintomo di una trasformazione strisciante, ma più ampia. Dal giuramento di Trump quale 47esimo presidente degli Stati Uniti il grande listino di borsa newyorkese S&P500 ha perso il 4,3%, il dollaro il 3,6% su un gruppo di grandi valute, mentre l’oro ha guadagnato il 10,7% fino a 3000,6 dollari l’oncia. In apparenza anomala è soprattutto la scivolata del biglietto verde mentre la Casa Bianca minacciava e decideva guerre commerciali contro Canada, Messico, Cina, Europa o su prodotti globali come il ferro e l’acciaio. Di solito il rischio di dazi americani fa rincarare il dollaro sulle monete dei Paesi colpiti, per una doppia ragione: per compensare il gradino in più nei costi dell’export di questi ultimi e perché le tensioni alimentano la fuga verso il bene-rifugio per eccellenza, il biglietto verde stesso.

Stavolta invece non sta succedendo. Sotto Trump, i capitali internazionali defluiscono dall’America e dalla sua valuta. In parte, era necessario: negli anni scorsi l’esplosione delle Big Tech aveva attratto flussi in eccesso, fino a far valere gli indici di borsa americani il 75% di quelli del mondo intero. In parte però potrebbe essere un sintomo: la potenziale ritirata dall’America dal commercio globale, le picconate di Trump al sistema del dopoguerra, i deficit e il debito crescenti del governo di Washington stendono un impercettibile velo sul ruolo futuro del dollaro come sola e incontrastata moneta di riserva del mondo. Lo scintillio dell’oro, anche a Mendrisio, ne è solo il riflesso.

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